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Corruzione senza vergogna

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Il malaffare dilaga. Con metodi sempre più evoluti: un tempo era casareccio, ora è globale. L’analisi dell’ex ministro di Grazia e Giustizia

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di Denise Pardo- L’Espresso

 

I corrotti si sono moltiplicati mentre c’è stata una selezione naturale della razza dei corruttori». Giovanni Maria Flick, ex ministro di Grazia e Giustizia del governo di Romano Prodi, ex presidente della Corte costituzionale, ha studiato a fondo l’evoluzione della corruzione. L’ha fatto anche in occasione del centenario della nascita di Guido Carli che ha conosciuto molto bene e che già nel 1993 aveva capito la portata inarrestabile del dilagare del fenomeno. Flick è un tecnico del ramo, dice con un sorriso, che può vantare tre master nella materia, essendo stato commissario dell’Ospedale San Raffaele, vice commissario dell’Expo e presidente del Comitato che porta il suo nome a Finmeccanica, società per la quale ora sta scrivendo il codice d’integrità e anticorruzione.
L’inchiesta su Mafia Capitale mostra un livello di malaffare senza precedenti. Antropologicamente parlando, a che punto è la corruzione?
«Negli oltre venti anni passati da Mani pulite e dalle stragi di Capaci e via D’Amelio c’è stata una buffa situazione. Con estrema fatica abbiamo cominciato a capire che non si può convivere né con la criminalità organizzata né con la corruzione ma non si è messo bene a fuoco che non si può convivere neppure con la criminalità economica. Il che è assurdo perché l’esperienza insegna che proprio Mafia city, Tangentopoli e Nerolandia sono i vertici di un triangolo delle Bermude della illegalità».
C’è differenza tra la corruzione di Mani pulite e quella di oggi?
«Sostanziale. Fino a Mani pulite si rubava soprattutto per fare politica. Oggi è il contrario, molti fanno politica per trovare occasione di rubare. Nel 1993 Guido Carli aveva previsto che la situazione già drogata potesse deflagrare. Credeva che il Trattato di Maastrich fosse l’unica speranza di controllo su una finanza pubblica allegra e protesa al consenso. Non poteva immaginare che dopo Tangentopoli la corruzione sarebbe tornata a esplodere come leggiamo tutti i giorni sui giornali».
Quale è stata l’evoluzione della corruzione?
«Negli anni Novanta era più casereccia. Dal 2000 più politica. Dal primo decennio del terzo secolo a oggi diventa globale, negli affari, nel mercato. Prima era punita solo la corruzione pubblica, ma dal 2012 con le pesanti sollecitazioni degli americani diventa reato anche pagare il privato. Nel ’96, quando ero al governo, cercammo di introdurre quel Daspo (“confessa, paga e levati dai piedi”) che ora il premier propone. Il Vaticano l’ha applicato e punisce da due a tre anni l’autoriciclaggio, che speriamo si vari anche da noi. Lo dico da professorino non da professorone».
Gli italiani sono un popolo corrotto?
«Rispondo come Antonio Canova a Napoleone che sosteneva che tutti gli italiani erano ladri: “Non tutti, ma buonaparte”».
C’è stata una trasformazione della figura del corruttore?
«La razza dei corruttori ha seguito Darwin: ha avuto una selezione naturale, ad operare sono rimasti i più bravi, i più capaci. I corrotti, hanno seguito il precetto della Bibbia, sono cresciuti e si sono moltiplicati grazie all’epidemia della corruzione. Se un nuovo impiegato arriva in un ufficio dove tutti prendono la mazzetta o un imprenditore partecipa a una gara in cui tutti la offrono come fa a resistere? E se è capace di resistere, è tagliato fuori».
Allora non c’è soluzione.
«In America il “whistle blower”, il suonatore di fischietto che segnala in modo coperto le irregolarità in cui s’imbatte è considerato uno che lavora utilmente per la collettività. Da noi è quasi un reietto: “chi fa la spia non è figlio di Maria”, no? Va trovata una via di mezzo, recuperando il valore della vergogna, della reputazione, della legalità sostanziale e non solo formale».
La corruzione ha cambiato pelle?
«Sì, non più la mazzetta – roba da opera pia – ma la consulenza, la triangolazione, le tangenti internazionali con biglietto di andata e ritorno. Anche la pubblica amministrazione ha cambiato pelle con le privatizzazioni, l’outsourcing, il decentramento, e soprattutto con l’insidia più pericolosa: considerare la grande opera come un caso emergenziale. Ci si muove con ritardo e così la logica dell’emergenza diventa nemica della legalità. Lo è stato per le Olimpiadi di Torino, per il G 20 dell’Aquila, per l’Expo, per un territorio che si disfa».
È un vizio o è un nuovo mezzo?
«È un’abitudine inveterata della mentalità italiana, ma che poi qualcuno ci marci capita di frequente. Nel frattempo l’Europa si è mossa».
In quale direzione?
«Per spiegarmi userò delle espressioni goliardiche. Ci sono due tipi di reato. C’è la corruzione in cui il privato dice “gustavo dandolo”, cioè avevo piacere di pagare per ottenere un vantaggio. E c’è il pubblico ufficiale che risponde “io godevo prendendolo”. Poi c’è la concussione, ovvero il privato costretto a pagare, “soffrivo dandolo”, e il pubblico ufficiale che dice “godevo prendendolo”».
In effetti sono più goliardiche che giuridiche.
«A un certo punto l’Europa ha detto “i protagonisti del reato passano da una condizione all’altra, c’è troppa confusione”. Così abbiamo introdotto una terza ipotesi la corruzione o concussione per induzione in cui il privato dice: “un po’ gustavo, un po’ soffrivo”. Ma devo constatare che l’interpretazione provoca un po’ di grattacapi ».
Bisogna intervenire anche sulla legge sulla prescrizione.
«Va modificata, non c’è dubbio, ma con equilibrio, tenendo conto sia dell’esigenza dell’imputato che di quella della vittima. Nessuno dei due può rimanere sotto lo scacco di un procedimento infinito. C’è assoluta necessità di cambiare anche le sconcertanti modifiche della legge Cirielli e, punto fondamentale, la prescrizione non può essere un mezzo per sfuggire al processo. Bisogna essere però attenti a non cedere a ondate emozionali come nel caso dell’Eternit a Torino dove ha contato più la mancanza di una legge sul disastro ambientale che la prescrizione».
Poi è arrivato il Web a cambiare profondamente la scena.
«La trasparenza è segno di democrazia. Il giudice costituzionale americano Louis Brandeis, spero di non sbagliarmi se no Zagrebelsky mi riprende – sto scherzando – dice che la trasparenza è come il sole, porta la salute, elimina le infezioni. La corruzione è malattia fortemente contagiosa. Ben venga la trasparenza del Web, il controllo civico nel seguire l’andamento di un appalto, il risultato di un concorso. In questo senso la legge anticorruzione del 2012 ha cercato di fare qualcosa ma pensando alle polemiche sull’applicazione della parte amministrativa, ci si rende conto di quanto sia difficile introdurre questo concetto. Il che mi fa davvero pensare che noi siamo soprattutto un paese di avvocati».
Come considera la legge anticorruzione?
«Costruisce un’impalcatura forse troppo burocratica. Dà malignamente la sensazione che si voglia tenere la gente occupata a riempire scartoffie o per impedire di corrompere o di farsi corrompere o di combattere la corruzione».
Il Web è anche un nuovo strumento di corruzione.
«Fa parte del discorso di fondo della globalizzazione. Il denaro può fare il giro del mondo in un minuto ma io percepisco con un po’ di paura l’abolizione della dimensione del tempo e dello spazio. Secondo me sapere usare il congiuntivo è una gran cosa perché ti consente di collocare gli accadimenti nella loro dimensione storica di successione».
Quali passi avanti si sono fatti e quali indietro?
«Le videoconferenze, i collaboratori di giustizia, i sequestri, le informazioni antimafia hanno portato buoni risultati nella lotta alla criminalità organizzata. Sulla corruzione, a parte la legge del 2012 e il commissario nazionale, si è fatto poco o nulla visto che ci si è affidati soltanto al giudice penale nonostante le condizioni della nostra giustizia. Penso che invece si debbano usare gli stessi strumenti investigativi destinati alla criminalità organizzata. E smettere di considerare la corruzione una tassa sull’inefficienza, una sorta di sacrificio all’inefficienza della pubblica amministrazione».
Per anni c’è stato un blocco di nome Silvio Berlusconi. Ora cosa sta cambiando?
«Ci sono delle indicazioni internazionali legate alle nuove dimensioni dei mercati che non si possono più ignorare. È stato ormai accertato che non basta punire visto che per punire devi prima scoprire. La prevenzione va fatta su un piano sistemico, chiedendo alle imprese di fare prevenzione e alla società di ristabilire una cultura della vergogna e della reputazione. Questo si salda con la nuova percezione che la corruzione non sia solo offesa alla legalità ma componente della crisi in atto e ostacolo agli investimenti del nostro paese».
Servirebbero nuove leggi?
«Per carità, no. Moltiplicare leggi è modo per alimentare la corruzione perché porta con sé l’applicazione del detto del Talmud: “Una parola disse l’Altissimo, l’uomo ne capì due”. Bisogna semplificare non aumentare. Anche perché non è più in vendita l’atto d’ufficio, ma la funzione. Non vado con i soldi in bocca a chiedere al funzionario pubblico di darmi quella licenza ma gli dico che lo metto al libro paga. Il pagamento della disponibilità, il mettere a disposizione il proprio potere è molto più grave di un singolo atto».
Difficile essere ottimisti, lei lo è?
«L’ottimista dice: “questo è il miglior mondo possibile”. Il pessimista commenta: “purtroppo”. Io sono ottimista per varie ragioni, perché finalmente si parla sul serio del problema, perché si è cominciato a capire che fare profitto a qualsiasi prezzo ti fotte, perché con la crisi economica e sociale gli sprechi, lo sperpero del denaro pubblico, le cattive pratiche della politica e della pubblica amministrazione diventano davvero non più sopportabili. Il problema è che noi rischiamo di rendere difficile ciò che è facile attraverso ciò che è inutile. Figuriamoci quando le cose non sono facili come nel triangolo delle Bermude dell’illegalità».