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L’articolo 9 della Costituzione: dall’economia di cultura all’economia della cultura. Una testimonianza del passato, una risorsa per il futuro.

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Sommario: 1. Spazio e tempo, territorio e memoria ai tempi della globalizzazione. – 2. Dalla cultura della appartenenza a quella della partecipazione: i beni comuni. – 3. Turismo della cultura e cultura del turismo. – 4. Il patrimonio ambientale e culturale per un’economia della cultura e non di cultura. – 5. Dalla prospettiva architettonica a quella storica e umana; il mecenatismo. – 6. Il bosco e l’articolo 9 della Costituzione: dall’età del legno a quella dell’umanità.

1. Spazio e tempo, territorio e memoria ai tempi della globalizzazione.

Ringrazio il Campus di Lucca, per avermi offerto l’occasione – con l’inaugurazione del XII anno accademico dei corsi di laurea in turismo – di riflettere insieme sull’articolo 9 della nostra Costituzione: una norma tanto evocata e citata (non sempre a proposito), quanto poco conosciuta nel suo significato e poco attuata.
Per interpretare l’art. 9 e per cercare di capire che cosa realmente dice, occorre partire da quello che è un effetto tipico della globalizzazione, del progresso tecnologico, della prevalenza dell’economia e del mercato, del dominio della rete: una concentrazione dello spazio e del tempo. Dello spazio, da cui derivano la mobilità delle persone, dei beni, delle idee, il superamento delle frontiere, la svalutazione della dimensione territoriale reale a favore di una dimensione virtuale. Del tempo, che è l’altra faccia di quella concentrazione, perché annullando lo spazio si annullano o si comprimono grandemente i tempi per superare le distanze e si elimina la gradualità per assimilare le diversità, attraverso l’assuefazione progressiva alle distanze.
Eppure lo spazio e il tempo sono le coordinate essenziali della nostra identità; la loro scomparsa e la loro riduzione ci portano spesso a una crisi di identità oppure di uniformità e di massificazione. Come reagire? Alla svalutazione dello spazio si reagisce con lo sviluppo, la valorizzazione e l’enfatizzazione del diritto al territorio; alla svalutazione del tempo si reagisce con la rivalutazione del diritto alla memoria.
Della valorizzazione del diritto al territorio abbiamo molteplici esempi e profili, che sottolineano il legame concreto tra l’essere umano e la sua terra di origine, o la terra in cui si radica e cui va ad abituarsi attraverso gli scambi culturali. Penso (e mi ha sempre colpito molto) alla formazione di una tradizione al risarcimento dei danni derivanti dallo sfruttamento, dalla privazione del territorio che varie Corti costituzionali e sovranazionali hanno riconosciuto ai discendenti di quelle comunità autoctone che sono state spogliate dei loro territori: la Corte interamericana e quelle supreme degli Stati Uniti, dell’Australia, del Canada. Un diritto al territorio, al risarcimento del danno per essere stati storicamente privati del territorio, è l’espressione più evidente del riconoscimento dei diritti e dei vincoli posti a tutela delle minoranze, delle loro lingue, del loro patrimonio culturale e religioso, del loro sviluppo, che sono alla base del riconoscimento dei diritti del gruppo e della sua storia.
Tutto questo porta ad un legame evidente anche con il diritto alla memoria: guardare al futuro in base alle esperienze del passato. Ricevere, conservare, trasmettere i valori e le esperienze che abbiamo ricevuto e quelle che abbiamo maturato a chi verrà dopo di noi. Ad esempio, qualche giorno fa abbiamo celebrato il giorno della memoria (ci sono tante memorie: alcune anche false e selettive); abbiamo ricordato l’apertura dei cancelli del campo di sterminio di Auschwitz. Ecco un riferimento ad una esperienza che abbiamo vissuto nel passato; che purtroppo si ripresenta in forme diverse nel presente e che temiamo si ripresenterà ancora e sempre più nel futuro; che però qualcuno rifiuta e disconosce attraverso il negazionismo, anche e soprattutto per negare a un popolo (quello ebraico) il diritto a un territorio e ad uno Stato. É un’esperienza che ci aiuta a comprendere l’importanza del diritto al territorio, del diritto alla memoria e del diritto/dovere alla cultura come apertura: quello che è il messaggio di fondo dell’art. 9 della Costituzione. Il territorio e la memoria non possono essere soltanto esclusivi e soltanto divisivi.
La cultura è il primo ed essenziale valore per uscire dalla crisi che stiamo vivendo: una crisi non solo finanziaria, ma soprattutto di cultura. La cultura come condivisione di esperienze tra istituzioni e società civile, tra popolazioni, tra individui; oltre alla lingua parlata, la lingua del paesaggio e la lingua dell’arte, rivolte a tutti, sono componenti essenziali della cultura. Quest’ultima, nell’art. 9 della Costituzione, è evocata come la premessa – da promuovere – del paesaggio e del patrimonio storico e artistico (l’impegno del presente e del futuro; l’eredità del passato) da tutelare.

2. Dalla cultura della appartenenza a quella della partecipazione: i beni comuni.

La riflessione sull’art. 9 della Costituzione ci porta ad un’altra riflessione, a mio avviso importante: il paesaggio (rectius, oggi l’ambiente) e i beni artistici come beni comuni. Non più (o non soltanto) come beni legati all’appartenenza e alla logica del profitto individuale, ma come beni destinati alla fruizione e al godimento di tutti.
Oggi si moltiplicano i centri geografici di produzione della cultura, si moltiplica il turismo culturale, si sperimentano in questo turismo nuovi modelli di business che devono cercare di salvaguardare l’autenticità e il valore del patrimonio culturale e paesistico. Oggi, per accedere ai contenuti culturali, non occorre più il viaggio in Italia; certo, è sempre opportuno, ma vi sono anche altri modi (penso alla digitalizzazione e alla riforma del diritto all’immagine e del diritto alla proprietà culturale letteraria) per poter produrre cultura; per il policentrismo della cultura; per una partecipazione consapevole di tutti a questo fenomeno e non solo una passività di fronte ad esso.
Una delle sfide più importanti delle nostre società è quella di passare dalla cultura dell’appartenenza alla cultura della partecipazione. Due secoli fa il leitmotiv del nostro vivere insieme era la cultura della proprietà; da un secolo a questa parte era subentrato il leitmotiv dell’identità e dell’appartenenza; ora il leitmotiv è diventato il tema della cultura della conoscenza e della partecipazione. Dalla tradizione del secolo dell’avere a quella del secolo dell’essere, dal secolo dall’identità al secolo del conoscere.
Ecco allora l’importanza della cultura come bene comune; e arrivo a una constatazione che mi pare significativa, parlando in una università del turismo: la cultura non può più essere un fatto solo di élite o di settori specifici dell’economia o della società. La cultura è un ecosistema che coinvolge le principali dimensioni della vita sociale: la salute, il lavoro, il riposo e lo svago, l’innovazione, la sostenibilità ambientale, la coesione sociale, la qualità della vita. Ecco la necessità quindi – avvicinandomi a quella che è la dimensione dell’art. 9 – di uno sviluppo fondato sulla cultura; occorre andare oltre il turismo culturale, oltre i canali digitali. Occorre investire nella scuola, nell’aumento della competenza culturale, in nuove forme di business, in nuove forme di disciplina della proprietà intellettuale; occorre uscire dalla logica che ha continuato per troppo tempo a vedere la cultura come una sorta di vetrina da porre in mostra per gli stranieri.
Penso a chi, come Dostoevskij ricordava giustamente che l’unica cosa che ci salverà è la bellezza; e alla domanda conseguente che pone l’amico Salvatore Settis: “ La bellezza ci salverà; ma chi riuscirà a salvare la bellezza?”.
Penso ad un avvertimento di Isaia estremamente attuale: “Guai a voi che ammucchiate case su case, congiungete campo a campo finché vi rimanga spazio”, che prosegue “edificherete molte case, ma resteranno deserte per quanto siano grandi e belle e non vi sarà nessuno ad abitarle”. Mi sembra un titolo di cronaca quanto mai pertinente alle vicende di questi ultimi anni, alla crisi che è venuta fuori dal boom dell’edilizia, alle vicende tanto finanziarie quanto umane dei subprime e della bolla speculativa immobiliare.
Penso ancora ad una affermazione molto felice di Enzo Bianchi: “Amare il prossimo tuo come te stesso non basta più. Amerai la terrà come te stesso, perché solo amando la terra amerai te stesso e amerai il prossimo tuo“.
Oggi parlare di beni comuni vuol dire discutere soprattutto sui diritti delle generazioni future. Ricorrono i temi della protezione del clima e dell’atmosfera, della conservazione della biodiversità, della tutela dell’ambiente, della gestione delle fonti di energia e dei rifiuti, del controllo delle biotecnologie e delle biosintesi, della protezione del patrimonio culturale. Cominciamo con fatica a capire che nessun crimine ambientale è così lontano da noi da poterlo ignorare.
Un tempo si diceva che un battito d’ali di una farfalla a Singapore ha un effetto da noi, nell’emisfero opposto. Penso alla deforestazione dell’Amazzonia, che è molto più pesante del battito d’ali della farfalla; penso ai disastri nucleari e comincio a comprendere il significato della parola ecocidio proprio per la necessità di orientarci a un sistema di valori sulla protezione della natura e della salute umana. Ciò ci porta immediatamente a cogliere i nessi che la nostra Costituzione propone tra il diritto all’ambiente e il diritto fondamentale alla salute, al legame che essa propone tra l’art. 9, l’art. 32 e l’art. 4, sotto la comune matrice dell’art. 3, la pari dignità sociale.
Penso alla necessità di rivedere i nostri schemi per la tutela dell’ambiente, del paesaggio, dei suoli agricoli, ad esempio, come componente fondamentale per la democrazia e per la libertà del nostro modo di vivere; come componente fondamentale di un’etica pubblica che si salda con la moralità individuale. Penso a uno degli ultimi esempi che abbiamo sotto mano: la difficoltà di stabilire un equilibrio tra la tutela della salute, quella dell’ambiente e quella tutela del diritto al lavoro come è emersa ad esempio drammaticamente nelle vicende relative all’ILVA di Taranto, dell’amianto di Casale Monferrato.

3. Turismo della cultura e cultura del turismo.

In questo contesto assume un rilievo fondamentale il profilo del turismo; un turismo sempre più legato alla fruizione culturale e sempre più attento agli asset; un turismo non da sfruttare, ma da valorizzare. In primo luogo il nostro sistema turistico è rallentato per un eccesso di frammentazione normativa, organizzativa e gestionale. Non basta richiamarci al viaggio in Italia di ottocentesca memoria, occorre la valorizzazione di una serie di profili: la destagionalizzazione, la diversificazione, la qualificazione e l’innovazione dell’offerta sia con riferimento alla domanda interna che con riferimento alla domanda internazionale.
Penso – perché ce ne siamo occupati anche alla Corte Costituzionale, sottolineando e prendendo atto delle difficoltà di governance – che, per il turismo come per molti altri campi, quella difficoltà sia dovuta alla confusione delle competenze; alla pluralità delle materie coinvolte; alla incapacità e alla mancanza di una sede per ricomporre problemi e strategie; e quindi alla confusione nella distribuzione delle competenze con i conseguenti inevitabili conflitti fra poteri.
In materia di turismo registriamo, come in tanti altri campi, una profonda crisi delle fonti: l’art. 117 della Costituzione prima della riforma costituzionale del 2001, che prevedeva il turismo nella logica della competenza regionale concorrente con quella dello Stato; una legge quadro del 1983 che definì i punti fondamentali degli interessi nazionali in questa materia; poi il nuovo art. 117 della Costituzione, nell’infelice modifica del 2001 (infelice perché ad esempio introdusse la distinzione tra tutela e valorizzazione dei beni culturali aprendo praterie di contenzioso tra i poteri dello Stato e i poteri delle regioni a praterie per il pascolo degli avvocati che lavoravano alla difesa delle competenze). Questa nuova riforma ha stabilito che la competenza per il turismo fosse una competenza regionale residuale, proprio nel momento in cui il legislatore ordinario portava invece a termine una legge quadro che riconosceva il ruolo strategico del turismo nella prospettiva unitaria dell’interesse nazionale per lo sviluppo economico e per l’occupazione.
Siamo ancora lontani dall’aver risolto una molteplicità di problemi: la pluralità di soggetti che fruiscono del turismo in base agli artt. 16, 9 e 120 della Costituzione; l’imprenditorialità nel settore; i beni oggetto. Nel nostro sistema costituzionale abbiamo tre definizioni diverse e troppo spesso contrastanti per definire la stessa realtà: paesaggio, ambiente e territorio; ogni definizione evoca poteri, competenze e logiche di contrapposizione tra poteri. Coordinare il pubblico, ciò che è centrale e ciò che è locale; coordinare il rapporto tra pubblico e privato; coordinare la domanda e l’offerta privata; coordinare gli interessi ricreativi, economici, sociali, culturali, ambientali e sanitari in una governance complessa non è facile. Proprio la Corte ricordava di recente l’interesse unitario del turismo e la necessità di ricondurlo ad unità nella grande varietà di offerte, tenendo conto del suo rilievo economico.
Parlare di turismo vuol dire parlare di patrimonio culturale, ambientale e boschivo. E parlarne oggi vuol dire parlare di beni comuni perché la ricchezza o è comune o non è ricchezza; la ricchezza è legata all’uso collettivo. Penso ai beni comuni del web, del software, dell’acqua, dei sistemi climatici, delle foreste, delle risorse minerarie, dei beni culturali, soprattutto delle risorse culturali. Oggi sono beni che si vanno rarefacendo sempre di più; da ciò la necessità di prevedere per essi una tutela forte e di lungo periodo.
Non solo i beni pubblici, come appartenenza, ma anche i beni privati possono e devono essere beni comuni; si deve rispettarne la titolarità diffusa (la differenza tra la società dell’appartenenza da cui veniamo e la società della partecipazione cui dovremmo tendere in vari campi); i beni comuni sono caratterizzati non tanto dalla loro appartenenza pubblica o privata, ma dalla loro finalità e funzione, che è quella di un godimento e di un uso pubblico. Non è questo un concetto nuovo, è una tradizione antica per il nostro paese: la publica utilitas di cui parlavano già i romani riconoscendo la supremazia del pubblico interesse sull’utilità del privato per la tutela del patrimonio, del paesaggio e dell’ambiente.
Ciò che è tipico per i diritti delle generazioni future è il bene comune; è un tema non solo giuridico, ma soprattutto e prima di tutto etico, civile con una lunga storia alle spalle e con delle grandi potenzialità per l’oggi e per il domani. Attingere dalla storia per costruire il futuro è il progetto dell’art. 9 della Costituzione. Esso è legato all’art. 5 della Costituzione: la Repubblica una indivisibile; all’art. 2, che pone una stretta sinergia tra i diritti inviolabili e i doveri inderogabili di solidarietà; all’art.3, che propone una pari dignità sociale e un pieno sviluppo della personalità che è compito della Repubblica promuovere; all’art. 21, per la libertà di pensiero e di manifestarlo con la parola; all’art. 32, per il diritto alla salute, che ha come componente essenziale il diritto alla salubrità dell’ambiente e in particolare dell’ambiente di lavoro; e da ciò derivano i limiti alla libertà d’impresa nell’art. 41 della Costituzione, che non può svolgersi in contrasto con la dignità, e alla funzione sociale della proprietà ai sensi dell’art. 42 della Costituzione.
No, dunque, alla corsa esasperata alle costruzioni (di cui ci parla Isaia) o all’abusivismo, ai condoni; divoriamo il territorio e i dissesti idrogeologici che subiamo cronicamente sono la sanzione di questa avidità. No alla scomposizione tra paesaggio, ambiente e territorio come espressione dei conflitti di potere tra Stato, Regioni, Enti locali così come lo è la distinzione esasperata tra tutela e valorizzazione dei beni culturali invece di essere una soluzione unitaria in vista della loro fruizione. No alla devastazione del paesaggio come distruzione sia della memoria storica, sia del futuro, in vista del profitto e dell’interesse di pochi.
Sì a un paesaggio inteso non solo come valore estetico di bellezza, ma come valore etico in un contesto in cui viviamo coabitando con le altre creature, proprio per garantire la salvaguardia di quella bellezza che sarà la nostra salvezza.

4. Il patrimonio ambientale e culturale per un’economia della cultura e non di cultura.

Ecco perché l’art. 9 è collocato nei principi fondamentali della Costituzione, sullo stesso piano dell’affermazione della libertà, dell’eguaglianza, della pari dignità. Ecco perché è importantissima la concezione del patrimonio culturale e del patrimonio ambientale come beni comuni: è una concezione unitaria e dinamica che non può essere frammentata. Non si parla più di beni come ne parlava la legge Bottai del 1939; si parla di patrimonio proprio per sottolineare questa dimensione unitaria.
È una concezione dinamica perché non può essere solo conservativa; una concezione positiva: non solo la tutela, ma la tutela orientata alla fruizione ed al riconoscimento e all’attuazione del rapporto tra diritti fondamentali. È una concezione unitaria perché l’intervento sul patrimonio ambientale e sul patrimonio culturale deve essere unitario, deve essere di tutti; proprio per questo la Costituzione parla di Repubblica. Anzi, il tema del patrimonio ambientale e culturale evoca un altro princìpio fondamentale della Costituzione, quello della sussidiarietà orizzontale riconosciuta esplicitamente dall’art. 118 ultimo comma dopo la riforma del 2001. Penso al c.d. terzo settore, al superamento di una contrapposizione rigida e tradizionale tra pubblico (inefficiente) e privato (finalizzato solo al profitto), con l’intervento del sociale, dell’occupazione giovanile, del volontariato e della cooperazione.
Soprattutto è una concezione che vede nella valorizzazione del patrimonio ambientale e culturale non tanto e non solo una valorizzazione di tipo esclusivamente economico, in base alla quale un bene acquista valore sempre di più in vista dello scambio perché sta diventando raro; ma una valorizzazione intesa come crescita della fruibilità di quel patrimonio da parte di tutti. Questo ci fa capire quanto sia importante, quanto sia originale, quanto sia nuovo il princìpio affermato dall’art. 9. Lo era già ed in particolare quando la Costituzione venne varata; adesso altre Costituzioni più recenti hanno ripreso quel principio fondamentale, che lega la tutela del patrimonio ambientale e del patrimonio culturale allo sviluppo della cultura.
Nel frattempo è maturata la consapevolezza che non è vero che con la cultura non si mangia. Con la cultura si pensa, si riflette, si inventa, si scambia, si dialoga; solo a queste condizioni con la cultura si può poi anche mangiare, si riesce a mangiare. In sostanza, l’art. 9 della Costituzione propone, a ben vedere una economia della cultura in questo senso; non, come finora si è fatto, una economia di cultura, che vuol dire soltanto e soprattutto risparmio di cultura, tagli orizzontali e verticali della cultura.
Siamo consapevoli di avere nel nostro paese un patrimonio culturale, artistico e ambientale molto ricco. Quello artistico-culturale è molto diffuso sul territorio, la sua unicità viene riconosciuta; presenta una stretta continuità con il contesto territoriale antropico e una stretta connessione con un turismo legato alla fruizione culturale. Questo vuol dire che occorre avere più attenzione per la necessità di una governance, di una gestione del turismo progettata ed attuata in modo intelligente.
Siamo abituati al refrain quotidiano secondo cui “Noi abbiamo una ingente dotazione culturale, ma una sua bassa redditività e una carenza di occupazione”. C’è una contraddizione tra le molte parole con cui ci si lamenta di questo e i pochi fatti con cui si cerca di porvi rimedio. Adesso forse il decreto-legge c.d. Franceschini dello scorso anno ha aperto finalmente (per qualcuno, troppo tardi) una finestra in questo senso. Eppure abbiamo una tradizione di tutela del patrimonio culturale e artistico che era già presente negli Stati preunitari, nel Regno di Napoli e nello Stato Pontificio; che era presente nelle prime leggi unitarie, quella del 1881 e del 1883 e poi le leggi del 1902 e del 1909 sulla conservazione dei monumenti e sul patrimonio culturale; per arrivare infine alle famose leggi Bottai del 1939 sulla tutela dell’ambiente e sulla tutela del patrimonio.
Tralascio l’iter successivo se non per sottolineare come in tempi di globalizzazione non c’è dubbio che il tema dei beni culturali abbia subito una serie di profonde innovazioni: una domanda crescente di fruizione legata alla crescente mobilità e alla crescita del livello culturale; quindi la necessità di limitare o disciplinare la fruizione da parte di tutti; e l’apparire di prospettive prima insperate e sconosciute di redditività, perché quanto più un bene diventa limitato tanto più può diventare redditizio e la sua utilizzazione può creare profitto. Infine, siamo giunti ad una vera e propria ecologia culturale: i beni culturali inseriti nella politica dell’ambiente; il patrimonio culturale integrato nel paesaggio.

5. Dalla prospettiva architettonica a quella storica e umana; il mecenatismo.

Quando sono uscito dalla Corte Costituzionale ho assunto (e ne sono orgoglioso) il compito di Presidente onorario della Fondazione per realizzare lo Yad Vashem, il museo della memoria della Shoah in Roma. A Torino due settimane fa, in occasione di una mostra per ricordare Primo Levi – Se questo è un uomo è il più bel testo di commento della Costituzione che io abbia letto, che descrive come è stata calpestata la dignità ad Auschwitz – è stato collocato temporaneamente in piazza Castello un carro ferroviario di quelli che portavano gli ebrei e i rom ad Auschwitz e ai campi di sterminio, per segnalare quella mostra. La reazione del sovrintendente architettonico di Torino – se è vero ciò che riportano i giornali – sarebbe stata quella di ingiungere di eliminarlo subito o nel più breve tempo possibile perché il carro ferroviario alterava la prospettiva architettonica della piazza delineata nel ‘700 dall’architetto Filippo Juvarra. Credo che la prospettiva architettonica non può non essere coniugata con la prospettiva storica e con la prospettiva umana. É giusto che la prospettiva architettonica della piazza Castello a Torino (dove è nato Primo Levi) e dello Juvarra sia segnata innanzitutto dalla prospettiva storica di una tragedia come lo sterminio ebraico che ha caratterizzato la seconda guerra mondiale; che ha visto coinvolte l’Italia (a partire dalle leggi razziste del 1938); che ha segnato la sofferenza di tante comunità ebraico-italiane come quella di Torino.
Accanto al profilo della domanda crescente di fruizione e dell’ecologia culturale, un altro profilo importante, in tempi di globalizzazione, è quello delle norme sui beni culturali che superano le frontiere nazionali perché essi diventano patrimonio dell’umanità; anche se questo aspetto porta con sé una serie di problemi legati al tema della tutela dei beni culturali. Penso per tutti al tema della mafia dei beni culturali, allo sfruttamento da parte della criminalità organizzata; infine, alla nuova nozione di beni culturali, o meglio alla molteplicità di nozioni di beni culturali legate all’incontro tra le varie diversità culturali.
Un primo passo per cercare di affrontare questo tema è stato fatto dal Governo attualmente in carica col decreto-legge dello scorso anno sui beni culturali, con l’emanazione –finalmente – di un complesso di norme che prevede la tutela del patrimonio culturale, lo sviluppo della cultura, il rilancio del turismo. È una svolta che era già stata avviata timidamente, ma che solo lo scorso anno ha preso corpo più concretamente.
Penso soprattutto all’introduzione del mecenatismo, all’art bonus: cioè non solo la sponsorizzazione da parte del privato che reclamizzando il bene culturale ne ritrae un profitto; non solo l’utilizzazione del privato come gestore dei servizi, il booking, la biglietteria, il bar; nemmeno, d’altra parte, la consegna al privato del bene pubblico perché se lo gestisca lui come vuole. Il mecenatismo segna una via di mezzo: la linea di affidare al privato la manutenzione, la protezione, il restauro dei beni culturali pubblici, lasciando al pubblico il controllo, le linee fondamentali della gestione, la tutela. Il problema, il limite del decreto legge dello scorso anno sta nel fatto di avere limitato ai soli beni pubblici la figura del mecenatismo, non estendendola anche ai beni privati.
D’altra parte col decreto legge dell’anno scorso per la prima volta si affrontano i temi del rapporto pubblico-privato nella gestione dei beni; del rapporto tra strutture centrali e strutture periferiche del ministero dei beni culturali; del rapporto tra Stato e enti locali in quest’ambito. Certamente quel decreto legge ha delle luci come delle ombre, ma questo è un primo passo importante e significativo.

6. Il bosco e l’articolo 9 della Costituzione: dall’età del legno a quella dell’umanità.

Vorrei concludere questa riflessione con un’immagine che mi ha sempre colpito molto e che mi sembra emblematica dei problemi che accompagnano l’attuazione dell’art. 9 della Costituzione nell’ambito del patrimonio ambientale e del patrimonio artistico. Penso al bosco: un emblema tipico di bene comune che ha una multifunzionalità, dalla fornitura del legno – materia prima insostituibile e rinnovabile per tutte le altre attività, dalla costruzione all’arredamento – alla sicurezza del territorio, al vincolo idrogeologico, alla produzione dell’energia, alla salubrità dell’ambiente, alla bellezza e all’armonia del paesaggio.
Nel bosco molti sono gli interessi in gioco, molte le aggressioni: il fuoco, l’abbattimento, i furti. Il bosco ha un ruolo fondamentale per lo sviluppo economico, per la tutela del territorio, dell’ambiente e del paesaggio. Coinvolge sempre di più attori di tipo diverso, pubblici e privati, e la sussidiarietà orizzontale e verticale.
Il bosco è la storia dell’umanità; è la storia dell’albero della vita e della conoscenza nel paradiso terrestre, dell’albero della croce nella redenzione, dell’albero cosmico con i rami in cielo e le radici in terra in tutte le mitologie; penso alle orride selve di cui parla Tacito. Il bosco è la base dell’arca di Noè; dell’arca dell’alleanza; dell’ulivo del talamo di Ulisse; della selva oscura di Dante; è il complesso dei boschi della Repubblica veneta per le galere che andavano alla conquista dell’oriente; è il bosco di Paneveggio da cui si traeva il legno per i violini e per i liuti; è il bosco vecchio di Dino Buzzati, per citare uno degli ultimi.
Quello del bosco è un ecosistema per economia, clima, salute, ambiente e territorio, nel quale non basta la conservazione statica; occorre lo sviluppo. La silvicoltura di nuova generazione, la nuova economia verde devono prendere atto che, ad esempio, il nostro è un paese ricco di boschi poveri; infatti si deve importare legname dall’estero; e questa sembra una definizione che in qualche modo si presta anche per il nostro patrimonio culturale, nonostante la sua ricchezza e la sua diffusione, per come esso è conservato e gestito.
Il bosco ha una storia molto lunga, molto interessante, molto logica. Anche in questo caso, dall’Unità d’Italia in poi, v’è la prima fase della tutela idrogeologica del 1923; poi la fase della funzione produttiva nel contesto della regionalizzazione; infine ed ora la fase del riconoscimento della multifunzionalità del bosco e del suo valore primario e assoluto.
Dal bosco all’albero: si parla di età della pietra, di età del bronzo, di età del ferro: ma non si parla mai di età del legno. Non si parla di età del legno perché il legno è l’età dell’uomo: il legno vive, muore, si rinnova con l’uomo. Ecco l’importanza di fare riferimento a temi di questo genere per capire l’art. 9 della Costituzione che adesso posso finalmente leggere nella sua semplicità mirabile:
La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione.”
Repubblica, patrimonio, nazione. Concetti unitari, concetti da rileggere e da rendere concreti soprattutto in tempi in cui si vuole riscrivere la Costituzione: prima di riscriverla bisogna rileggerla, anzi qualcuno dovrebbe leggerla; e bisogna cercare di attuarla. Ecco perché per me l’art. 9 è una delle norme più importanti della nostra Costituzione: perché salda la tutela del paesaggio, dell’ambiente e dei beni culturali in una prospettiva che guarda alla testimonianza del passato come un impegno per il futuro, per i nostri figli e per i figli dei nostri figli.