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Elogio della dignità

UNA FIACCOLA ATTRAVERSO I SECOLI

L’intervento del Prof. Flick pubblicato sul n. 1 di “Civiltà del Lavoro” di febbraio 2015.

Ho lasciato la Corte Costituzionale nel 2009, dopo aver provato tutti i “mestieri” del diritto: magistrato, avvocato, docente universitario. Ma non ho finito di lavorare e di imparare: ho fatto in questi ultimi anni esperienze straordinariamente interessanti e talvolta “scioccanti” esaminando il tema della corruzione nella sanità, negli appalti (in particolare nella vicenda Expo), nel mercato globale relativo alla difesa.
Questi impegni professionali mi hanno fatto riflettere con preoccupazione su come funzionino le cose in Italia e su due “regole” in particolare, dalle quali è nata l’idea di scrivere “L’elogio della dignità”. La prima la definirei così: l’Italia non è il Paese dei posti a sedere ma il Paese dei sederi a posto, nel senso che le poltrone sono, purtroppo, create troppo spesso ad hoc per chi vi deve sedere; la seconda riguarda più da vicino l’argomento del libro: in Italia capita sovente che per diventare un dignitario, cioè una persona che ricopre una carica e un ruolo sociale, bisogna smettere di essere dignitoso.

La domanda di fondo è: perché parlare di dignità? Che cos’è la dignità? Mi sono reso conto che noi dibattiamo moltissimo della dignità e ne parliamo in chiave negativa, per esempio come indignazione, ma cosa vuol dire realmente dignità? Abbiamo bisogno di riflettere in chiave positiva per capire che cos’è la dignità, concetto che viaggia in parallelo a quello di libertà.
Sul tema della libertà molto è stato scritto e io stesso ho iniziato la mia esperienza accademica dedicando ad essa una voce della “Enciclopedia del Diritto”, ma meno si è discusso di dignità. La prima immagine che mi è venuta in mente è quella di un ponte che lega il passato, il presente e il futuro dell’uomo. È un ponte legato al passato perché di dignità si è sempre parlato: è stata teorizzata dai Greci, dai Romani, è stata al centro della riflessione nel corso dell’Illuminismo e nel passaggio all’epoca moderna, arrivando a caratterizzare le costituzioni nazionali così come le carte sovranazionali dei diritti. Per chi è cattolico la dignità esprime l’identificazione col Creatore perché l’uomo è fatto a immagine e somiglianza di Dio; per il non credente è fondamentale la massima kantiana per cui l’uomo ha una dignità in quanto non può mai essere usato come mezzo per altri fini, ma è un fine in sé stesso.

Nell’evoluzione storica dell’Europa la dignità è una costante che accompagna l’identificazione dell’uomo e della donna sia in positivo, come testimoniano molte Carte di diritti, sia in negativo, e mi riferisco all’orrore dei campi di sterminio, l’acme del disprezzo della dignità umana. Non si possono comprendere queste riflessioni senza leggere quello che io considero uno dei più bei libri di diritto costituzionale: “Se questo è un uomo” di Primo Levi, il quale racconta la sua esperienza di uomo che ha conservato la dignità nel campo di concentramento. Sono stato varie volte ad Auschwitz ed è un viaggio che prescriverei a tutti perché è giusto andare a vedere dove l’Europa è morta e dove l’Europa ha ricominciato a vivere dopo il 27 gennaio 1945, soprattutto oggi che tutte le tracce fisiche del passato e i testimoni che lo hanno vissuto stanno scomparendo e si sta affermando sempre di più il negazionismo, momento terminale di questo processo di distruzione della dignità di un uomo e di un popolo.
Viviamo un presente – e ci si prospetta un futuro – in cui la dignità quale riconoscimento dell’essenza umana viene calpestata e insidiata in modi altrettanto preoccupanti, a cominciare da certe evoluzioni delle biotecnologie, della clonazione, per arrivare alle problematiche connesse al fine vita, alla fecondazione assistita o alla sperimentazione, che aprono la strada a forme di distruzione e di aggressione alla dignità diverse, ma altrettanto pericolose di quelle che abbiamo vissuto nel passato. Pensate, ancora, al tema della aggressione all’identità e alla privacy di ciascuno di noi, a tutto quello che rappresenta oggi la tecnologia della comunicazione, che ci sommerge in un flusso di informazioni di cui rischiamo di divenire schiavi.

La dignità è un ponte tra il passato, il presente e il futuro anche perché segna l’identità dell’uomo, il suo modo di essere sia in generale – ovvero la dignità è di tutti in quanto essere umani – sia in particolare, quindi la dignità della donna, del bambino, del malato, dell’anziano, dell’immigrato, del clandestino. È un concetto polivalente, che considera sia l’uomo come tale che il singolo nel concreto del suo rapporto con gli altri. Pensate al detenuto: la Corte Costituzionale ha detto e ripetuto più volte – e la Corte di Strasburgo ha confermato questo orientamento – che anche chi è detenuto ed è privato delle libertà ha uno spazio di dignità che deve essere difeso ad ogni costo. La nostra Costituzione sancisce, infatti, all’art. 13 che è vietata ogni violenza fisica o morale sulle persone che siano private della libertà personale. Vi cito quest’esempio per sottolineare che quando trattiamo di dignità dobbiamo aver sempre presente che essa è una “targa” che segna innanzitutto tutti gli uomini allo stesso modo. Ma questo argomento va poi confrontato con la concretezza del singolo uomo, della singola donna, aprendo la strada al rapporto dialettico tra la dignità e la diversità di ciascuno di noi.

La seconda guerra mondiale con i suoi eccessi di atrocità, dai campi di concentramento ai gulag, ha causato un risveglio delle coscienze sulla necessità di ribadire il valore della dignità e tutte le Costituzioni nazionali europee hanno accolto questo bisogno. Ha cominciato proprio la Costituzione tedesca nel 1949 (i tedeschi avevano la coda di paglia lunga chilometri), che si apre in nome della dignità, fondamento di tutti i diritti.
Su questo piano si sono collocate anche le principali Dichiarazioni internazionali: la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che ha dato luogo alla costituzione del Consiglio d’Europa e della Corte europea di Strasburgo. L’Europa nasce e si sviluppa proprio attraverso un’estrema attenzione al concetto di dignità e ai diritti fondamentali che sono espressione di questa.
La nostra Costituzione pone a fondamento della Repubblica il lavoro, diritto e dovere per tutti. Sceglie, quindi, un’impostazione più pragmatica, dal momento che il nostro Paese aveva da confrontarsi con tutta una serie di problemi legati alla conflittualità interna tra partiti che avevano fatto la resistenza e partiti che l’avevano subita, tra società civile e società politica sclerotizzata.
La dignità, nella Costituzione Italiana, è enucleata all’art. 3, nel quale si afferma l’uguaglianza di tutti di fronte alla legge, senza distinzioni di razza, di sesso, di religione, di situazione economica; si ribadisce nello stesso articolo che tutti abbiamo pari dignità ed è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che impediscono la piena partecipazione di ciascuno alla vita politica e sociale del paese. E queste statuizioni vengono non a caso dopo l’art. 2, che ha ricordato che l’identità dell’uomo e della donna è segnata da una serie di diritti inalienabili e inviolabili, ai quali, però, si accompagnano dei doveri inderogabili di solidarietà economica, politica e sociale. La concezione di dignità come pari dignità sociale prende corpo in questa dimensione: ai diritti inviolabili, come il diritto alla vita, alla libertà, all’informazione, corrispondono dei doveri di solidarietà che devono servire a trovare un equilibrio al paradosso del fatto che siamo tutti uguali e siamo tutti anche contemporaneamente e profondamente diversi. Il pluralismo e la minoranza sono il sale della democrazia e della vitalità; la diversità è un valore, a condizione che non diventi differenza e discriminazione in senso negativo. La Costituzione fotografa ancora la dignità in altri due articoli importanti: nell’art. 41, in cui è sancita la libertà di iniziativa economica, che non può svolgersi in contrasto con la dignità, e nell’art. 36, espressione eloquente di una Costituzione “lavorista” qual è la nostra, che assicura a tutti una retribuzione che consenta al lavoratore e alla sua famiglia una vita dignitosa.

Molte altre norme della Costituzione si occupano implicitamente di dignità: l’art. 13, quando vieta le violenze sui detenuti; l’art. 32, che con il diritto fondamentale alla salute afferma la necessità che qualsiasi trattamento abbia il consenso di chi lo subisce; l’art. 27, che contiene un’affermazione importantissima della dignità, statuendo che le pene devono tendere alla riabilitazione del condannato e non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità.
La dignità è una nozione da “maneggiare” con cura. Si pensi soltanto alla complessa semantica dell’uomo “dignitoso”, che nell’immaginario collettivo è associato all’idea di un uomo che merita rispetto in virtù dei suoi meriti, delle sue qualità, per l’ufficio che ricopre, per i suoi soldi. Si pensi all’idea di un uomo che è dignitoso solo perché è in realtà un dignitario. Si pensi, ancora, al rischio di confondere la dignità col buon costume, col rispetto dei modelli dominanti, di confinare il tema della dignità in un discorso di tipo morale. E c’è un altro binomio quanto mai drammatico che oggi deve essere considerato, che è quello dignità-sicurezza: l’attuale scenario geopolitico ci impone di trovare un equilibrio tra questi due valori. Dagli attentati dell’11 settembre 2001 agli attuali avvenimenti che vedono protagonisti i terroristi dell’ Isis ci troviamo a fronteggiare un nemico che gioca sul terrore e sul panico.
Proviamo a trarre qualche conclusione dai profili problematici fin qui presi in considerazione. La dignità, ora come in passato, è la base del rispetto della condizione umana, è il valore conciliatore di eguaglianza e diversità, di cui assicura la saldatura attraverso la solidarietà. A questo punto, però, si prospetta un’altra questione imprescindibile, che è quella del rapporto fra la dignità e la libertà. Sembra il dilemma dell’uovo e della gallina: è nata prima la libertà o è nata prima la dignità? La dignità è attributo della libertà o la libertà è attributo della dignità? La questione può apparire banale, ma, in realtà, il quesito è molto più importante di quanto possa sembrare perché si tratta di capire entro quali limiti la libertà di ciascuno consenta al soggetto di rinunciare alla sua dignità; l’imposizione del burqa è un aiuto a difendere la propria libertà o è un’offesa per la dignità della donna? Le mutilazioni genitali femminili, tipiche di certe culture, sono una forma di affermazione dell’identità e della dignità, della libera espressione, oppure devono essere impedite? Chi è il giudice della dignità? Un terzo oppure ciascuno di noi è giudice della propria dignità e può rinunciarvi? La risposta implica risvolti particolarmente delicati perché da essa dipende per esempio il diritto a smettere di vivere se si ritiene che la propria vita non sia più dignitosa e la qualificazione di legittimità della pretesa che qualcuno collabori a tal fine.

È chiaro che problemi enormi, che coinvolgono la vita di tutti a livello individuale e globale, si basano sulla dialettica di libertà e dignità: lo scontro tra il diritto al lavoro e il diritto alla salute, la tutela dell’ambiente come tutela della dignità umana, giusto per citare qualche questione attuale.
Qualcuno sostiene che è meglio rinunciare a un concetto così ambiguo come quello di dignità, che continuiamo ad evocare non sapendo esattamente cosa significhi. Io, invece, credo, con una punta di ottimismo, che per quanto ambigua, confusa, calpestata e poi riscoperta sia stata la dignità, occorra ancora sapersi “indignare”: non solo di ciò che capita all’altro estremo del mondo, ma anche di ciò che capita a casa nostra e ricordarsi che questa è la premessa per la costruzione del rispetto della personalità e del modo di essere della persona, fondamentale per continuare a convivere.