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La memoria di ieri, l’impegno di oggi e di domani

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Articolo pubblicato sul Corriere della Sera il 25/01/2016

Il “Giorno della Memoria”, a quindici anni di distanza dalla legge del 2000 che lo ha istituito, è l’occasione per un bilancio. È certamente positivo, con alcune perplessità in parte originarie e in parte dovute al passare del tempo. Non si tratta di cambiare la legge, ma di interpretarla perché possa cercare di rispondere agli interrogativi per i quali è nata: che cosa, come e perché ricordiamo.

Ricordiamo “l’abbattimento dei cancelli di Auschwitz il 27 gennaio 1945”, quando ad essi giunsero i primi soldati russi che – racconta Primo Levi all’inizio de La Tregua – incontrarono il nulla, gli spettri, la vergogna, la fine dell’umanità. Ricordare la fine di Auschwitz è una scelta: ma è altrettanto se non più giusto – anche se più difficile – ricordarne le cause, le premesse e l’inizio. La legge richiama in effetti “le leggi razziali” e “la persecuzione italiana dei cittadini ebrei”: questa può e deve essere l’occasione per sfatare la leggenda degli “italiani brava gente” che troppo spesso falsa la prospettiva storica e dimentica le nostre responsabilità di italiani, individuali e collettive. È doveroso ricordare i tantissimi che hanno subito la deportazione e la morte e i pochi giusti che si sono battuti per la loro salvezza: a patto però di non dimenticare i troppi carnefici e i complici nelle deportazioni, ancor più numerosi per indifferenza, paura, coinvolgimento burocratico, scopo di profitto o rancore nelle deportazioni.

Come ricordiamo? Organizzando secondo la legge, cerimonie, incontri nelle scuole, iniziative (come i viaggi degli studenti ad Auschwitz). È necessario per tenere viva la memoria nel cuore e nell’emozione; per evitare che la Shoah diventi soltanto astratta nozione per la mente nei libri di storia. Ma occorre evitare anche che con il passare del tempo e la ripetitività quel giorno si trasformi soltanto in un’occasione rituale, retorica e celebrativa; in una memoria burocratica e imposta, come la toponomastica stradale; o – più ancora – che diventi soltanto un’occasione per operazioni editoriali. È difficile distinguere in concreto fra il fine della conoscenza e quello del portafoglio: ogni contributo (libri, film) alla prima è prezioso, per passare dalla conoscenza alla coscienza e per non delegare soltanto alla legge e al giudice la risposta al negazionismo; ma può rischiare l’assuefazione e quindi il rifiuto.

Perché ricordiamo? La legge guarda al passato e al futuro: “conservare la memoria di un tragico e oscuro periodo … affinché simili eventi non possano mai più accadere”. Non un risarcimento tardivo e insufficiente al popolo ebraico, per la tragedia di cui è stato vittima; tanto meno – come pretende il negazionismo, sia quello più becero che quello più pretenzioso – una assurda connivenza con la bestemmia della “menzogna ebraica” sulla Shoah o sulla sua enfatizzazione, una cambiale oscena per la fondazione dello Stato di Israele; né un’inammissibile pretesto per equiparare gli ebrei vittime del nazismo e i palestinesi, nonostante le legittime riserve su taluni aspetti della politica repressiva israeliana. Ma la consapevolezza che la Shoah è ammonimento per tutti noi, più che memoria per gli ebrei; è un delitto incommensurabile contro la dignità e l’umanità.

Giovanni Maria Flick