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Dolore versus dignità*

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Articolo pubblicato ne L’INDICE DEI LIBRI DEL MESE - Settembre 2018 Anno XXXV N. 9
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* Tratto dalla lectio magistralis tenuta per la Giornata Internazionale per le vittime di tortura “Dolore versus dignità”, Auditorium dell’Orto Botanico, Padova – 26 giugno 2018.

Riemerge sotto vari profili il dibattito sulla tortura: sulla sua ammissibilità in linea di princìpio, sui suoi limiti, sulla sua utilità; in modo sempre più palese, sempre meno sotto traccia e sempre più senza pudore. L’uso e la somministrazione del dolore riemergono come strumento processuale di ricerca della verità; come strumento sostanziale di afflittività della pena e di affermazione dell’autorità, di fronte all’opposizione e al dissenso; come strumento di risposta al terrorismo attraverso una prevenzione fondata anch’essa sul terrore.

Grazie alla evoluzione della tecnologia si arricchiscono gli strumenti della tortura fisica e/o psichica: dai mezzi meccanici di contenzione e costrizione a quelli chimici, a quelli fisici scioccanti, alla paura e all’umiliazione. Il tutto con l’obiettivo, attraverso la sofferenza, di annullare la dignità della vittima, la sua capacità di resistenza e di autodeterminazione, la sua libertà; di condizionare il suo rapporto con l’autorità e con lo stato.

Sussiste come unico limite – quando non intervengano “incidenti di percorso” – la salvaguardia della vita umana (come dovere o più semplicemente per non lasciare tracce visibili sul corpo della vittima, evitando interventi cruenti?). Ma v’è quanto basta per distruggere con la dignità della vittima anche l’architettura – faticosamente costruita con un lungo percorso nazionale e sovranazionale – di convenzioni, di garanzie e di giudici per definire il rapporto fra persona e stato; per collocare al centro di quel rapporto la prima e non il secondo; per cercare di concretizzare ed assicurare l’universalità, l’indivisibilità e soprattutto l’effettività dei diritti inviolabili in cui si traduce la dignità di tutti e di ciascuno.

Prima di interrogarsi sulla consistenza delle ragioni che sorreggono la pretesa di legittimità della tortura che si va riproponendo, occorre una riflessione preliminare. Mi riferisco alla schizofrenia e alla contraddizione di uno stato che con una mano somministra direttamente o indirettamente (con la tolleranza quando non con la connivenza) la sofferenza attraverso la tortura; e con l’altra, contemporaneamente, somministra l’antidoto e il rimedio alla sofferenza, attraverso la terapia del dolore, considerandolo una malattia da curare e non più soltanto un sintomo di malattia da sopportare.

Con l’introduzione finalmente della legge n. 38 del 2010 sulle cure palliative e sulla terapia del dolore e con il consolidamento di questa linea nella legge n. 219 del 2017 sul consenso informato e sulle disposizioni anticipate di trattamento, il legislatore ha recepito la definizione della salute proposta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità: non solo l’assenza di malattia in negativo, ma il benessere psicofisico e sociale (cfr. anche da ultimo l’art. 3 della Carta di Nizza sul diritto alla propria integrità fisica e psichica) in positivo.

Il rifiuto del dolore, o quanto meno la rimozione delle sue conseguenze si traduce nel risarcimento del danno morale (la c.d. pecunia doloris) oltre a quello dei danni fisici e psichici. Si traduce nel rifiuto dell’accanimento terapeutico con mezzi inadeguati, inutili, e a loro volta produttivi di dolore. Quel rifiuto si traduce inoltre nella terapia del dolore e – occorrendo – nella sedazione palliativa profonda della persona in associazione con essa: l’esatto contrario del tenere in vita la vittima per poter continuare a infliggerle sofferenza nella tortura.

È ormai matura (per fortuna) la consapevolezza che il dolore crea solitudine, disperazione, desiderio di morte. È superata la concezione culturale del dolore come esperienza esistenziale da affrontare con rassegnazione, come espiazione dei peccati propri e di tutti: dal “partorirai con dolore” della Genesi alla sofferenza di Cristo nell’orto di Getsemani e alla sua preghiera di esserne liberato.

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 Di fronte al percorso culturale, scientifico e giuridico di contrasto al dolore; di eliminazione delle sue cause e conseguenze; di riconoscimento del diritto al risarcimento (la pecunia doloris) nei limiti del possibile, non è facile comprendere la contraddizione del contemporaneo percorso opposto: l’uso del dolore nella tortura.

La tortura ha alle spalle una lunga storia di somministrazione del dolore; di sua esaltazione e regolazione minuziosa; di pubblicizzazione, ostentazione a fini di prevenzione e di ammaestramento; di spettacolarizzazione per soddisfare la curiosità morbosa del pubblico e per educare quest’ultimo. Dalla sua legittimazione a partire dagli ordinamenti di Roma consolidati nel medioevo e nel rinascimento, sino all’avvento dell’illuminismo; al rifiuto assoluto di essa da parte degli esponenti di quest’ultimo (per tutti, si vedano Pietro Verri, Cesare Beccaria, la Leopoldina); poi alla sua conservazione in maniera occulta e clandestina; oggi al suo riemergere palese e alla richiesta di sua rilegittimazione.

È una storia che pensavamo di aver esorcizzato e rifiutato, con la sua vergogna, grazie alle conquiste della civiltà, alla riscoperta della dignità umana ed all’avvento della democrazia. In realtà attraverso l’ipocrisia di una condanna apparentemente unanime e sotto l’ombra di un divieto assoluto, quella storia continuava e continua a sopravvivere anche nelle democrazie; non soltanto negli stati autoritari.

Basta pensare alle numerose condanne della tortura, dopo il secondo conflitto mondiale, a partire dalla Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo; a seguire con la Convenzione di Ginevra nel 1949; con il Patto internazionale sui diritti civile e politici nel 1966; con la Convenzione delle Nazioni Unite nel 1984 contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti (ratificata dall’Italia con legge n. 498 del 1998), sottoscritta da centosessantatre paesi.

Basta pensare al percorso analogo nell’ambito europeo, con la convenzione CEDU del 1950 e le sue numerose condanne (anche nei confronti dell’Italia); con l’attività del Consiglio d’Europa e dell’Unione Europea; da ultimo con la Carta di Nizza del 2000/2007 sui diritti fondamentali dell’Unione Europea.

Nonostante il carattere formalmente assoluto e non derogabile del divieto (sottolineato da Norberto Bobbio) siamo consapevoli che la tortura continua ad esistere e ad essere praticata: come prassi quotidiana contro il dissenso negli stati autoritari; come trattamento inumano e degradante, violenza fisica e psichica anche negli stati democratici.

Tuttalpiù in questi ultimi si coglie la differenza fra le situazioni in cui questa forma di illegalità è sanzionata sia formalmente che sostanzialmente e le situazioni in cui – al di là dell’ipocrisia del divieto formale – essa è invece sostanzialmente tollerata: le peggiori, a causa di quella ipocrisia che spinge non tanto a limitare, quanto a dissimulare meglio la pratica della tortura.

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Il problema della riemersione della tortura nella democrazia riveste una particolare attualità nel contesto odierno di diffusione del terrorismo glocale e della insicurezza che ne deriva per la convivenza. Una insicurezza che si fonda sia sulle numerose manifestazioni concrete del terrorismo; sia prima ancora sullo stato di angoscia e di paura collettiva che esso alimenta deliberatamente.

Diventa agevole, in questo clima, guardare alla tortura come ad una risposta adeguata – o quanto meno ragionevolmente soddisfacente (qualche volta all’apparenza l’unica) – al terrore. È difficile non cercare e non sfruttare qualsiasi strumento di indagine in qualche modo disponibile. È difficile non lasciarsi trascinare dalla tentazione di una reazione a qualsiasi costo e da quella di una “guerra globale”, di fronte a una strage efferata di innocenti coinvolti per caso.

È difficile fermarsi e non cercare ad ogni costo e con ogni mezzo di acquisire informazioni da chi sia sospettato di aver nascosto la ticking bomb che esploderà nella scuola, nella chiesa, nell’ospedale, nel centro commerciale: di cercare di sapere dove e quando esploderà. È difficile fermarsi, ragionare freddamente; non reagire nei confronti di chi spara a casaccio nel mucchio o contro gli ostaggi inermi; non seguire gli impulsi dell’empatia; rispettare i limiti della legge e l’umanità del presunto o effettivo autore o complice del gesto terroristico.

È ricorrente il dibattito sulla riscoperta “formale” della tortura; il richiamo alla teoria del “male minore” per giustificarne la legittimità morale; il tentativo di legalizzarla attraverso la fissazione per legge di limiti alla tortura, nell’illusione di rispettare in tal modo il princìpio dello stato di diritto. È ricorrente il richiamo alla necessità di bilanciare il rispetto dei diritti fondamentali di ciascuno con il diritto alla sicurezza di tutti; all’emergenza che però diventa quotidianità; alla prevalenza del diritto alla sicurezza collettiva sulla sicurezza dei diritti fondamentali. Il ricorso a tal fine agli interrogatori “coercitivi”; la riduzione della dignità e della sua tutela al solo rispetto (quando si riesce) della vita della vittima della tortura – amputandola della libertà e del corredo di diritti sociali indivisibili dalla dignità – di solito sono il primo passo sulla “china scivolosa” della tortura.

Sono questi i profili che destano contrasti, perplessità ed angoscia nel dibattito sulla riscoperta, sulla legittimità e sui limiti di una tortura che si riteneva troppo ottimisticamente rimossa dalla democrazia.

Nel dibattere quei profili, occorre tenere presente che la tortura è praticata di solito anche negli stati democratici, con mezzi sofisticati per salvare le apparenze; che non è impedita di per sé né dal carattere democratico, né dai presidi e dalle garanzie apprestate dallo stato democratico. Insieme alla dignità la tortura lede i requisiti essenziali di eguaglianza, universalità, inviolabilità, indivisibilità ed effettività dei diritti fondamentali, nell’ordinamento costituzionale interno ed in quello sovranazionale convenzionale. Essa corrompe ed annulla la dignità molto più in chi la pratica che in chi la subisce.

Soprattutto, il ricorso alla tortura non è né ragionevole, per il suo alto rischio di inutilità; né necessario, perché possono esservi altri mezzi di prevenzione e di intelligence; né eccezionale, perché è sempre più frequente e prevedibile il bisogno di acquisire informazioni.

La tortura non è neppure utile sotto altri aspetti più generali di equilibrio globale. Come dimostrano numerose esperienze emblematiche – le torture “coloniali” in Viet Nam e in Algeria; quelle “contro l’eversione” di massa in Grecia, in Argentina, in Cile; quelle contro il terrorismo in Afghanistan e in Iraq – la tortura distrugge in modo difficilmente riparabile la reputazione e la legittimità di uno stato democratico degno di questo nome, che la pratichi o la tolleri.

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 La situazione italiana rispecchia il clima generale delle democrazie in tema di divieto formale assoluto della tortura e di sua tolleranza in concreto.

Il lungo iter politico, dottrinale e parlamentare per l’introduzione del delitto di tortura nell’ordinamento nazionale (con la legge n. 110 del 2017); ed il suo testo normativo nella stesura definitiva (dopo il dibattito su numerose proposte) riflettono le tensioni e i compromessi che hanno segnato il riempimento di questo vuoto rilevantissimo nella tutela della dignità.

L’occasione e lo stimolo più prossimi per l’approvazione della legge sono stati proposti soprattutto dalle drammatiche vicende verificatesi a Genova nell’estate del 2001, in una caserma di polizia ed in una scuola, in occasione dei gravissimi episodi di turbamento dell’ordine pubblico e di reazione da parte delle forze di polizia durante lo svolgimento del G8. Ma accanto a quella occasione, non sono mancati diversi e reiterati episodi di gravi maltrattamenti individuali o di piccoli gruppi ad opera di appartenenti alle forze di polizia, qualificati spesso come tortura dall’autorità giudiziaria e talora seguiti dalla morte della vittima. Gli esempi purtroppo non mancano anche in questi tempi.

I fondamenti costituzionali per l’attuazione anche in Italia della Convenzione ONU del 1984 sono molteplici; sono tutti di estremo rilievo e significato. Vale in primo luogo, nell’art. 3 Cost., il richiamo generale alla “pari dignità sociale” di tutti; in secondo luogo, nell’art. 11 Cost., quello a “le limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni”; e, nell’art. 117 (testo riformato nel 2001), quello a “i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali” per l’esercizio della potestà legislativa statale e regionale.

Vale soprattutto, nell’art. 13 ultimo comma Cost., l’obbligo di punizione – unico previsto dalla Costituzione – di “ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”.

Vale inoltre, nell’art. 27 Cost., l’affermazione esplicita che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”, con riferimento alle condizioni di sovraffollamento del carcere ed alle loro conseguenze degradanti nella quotidianità, che sono state reiteratamente condannate dalla CEDU. La necessità del rispetto di tutti i “residui di libertà” del detenuto compatibili con la pena della privazione della libertà personale, è un’affermazione consolidata anche nella giurisprudenza della Corte costituzionale, a proposito degli eccessi di rigore nella applicazione dell’art. 41 bis o.p.

Nell’art. 27 è altrettanto esplicito il richiamo alla abolizione definitiva della pena di morte anche nel codice penale militare di guerra. È un richiamo particolarmente calzante di fronte alla tendenza alla “guerra totale contro il terrorismo”, che va diffondendosi.

Vale infine il richiamo dell’art. 32 Cost. – per la verità non particolarmente evocato nel dibattito sul terrorismo – alla tutela della “salute come fondamentale diritto dell’individuo”, oggi intesa come diritto al benessere fisico e psichico e come diritto alla terapia contro la malattia del dolore.

Di fronte a questa molteplicità di indicazioni costituzionali non poteva ritenersi né adeguata, né sufficiente – per sottovalutazione dei beni tutelati; per lievità della sanzione; per facilità della prescrizione estintiva – la linea di difesa della dignità e della personalità umana contro la tortura attuata in passato, semplicemente attraverso il richiamo dei maltrattamenti e degli abusi dei pubblici ufficiali contro detenuti (artt. 571 e 572 c.p.; artt. 606, 607, 608 e 609 c.p.).

Come è stato giustamente osservato, la nuova fattispecie non soddisfa certamente ed in toto le aspettative per l’attuazione della Convezione del 1984 per una serie di ragioni sia di princìpio che tecniche (prima fra tutte la qualificazione della tortura come reato comune, e non invece come reato proprio del pubblico ufficiale). Non è possibile affrontare tali ragioni in questa sede; ma esse sono state approfondite nel dibattito politico e giuridico. L’art. 613 bis è il frutto di una serie di compromessi; è di difficile lettura ed interpretazione; secondo qualcuno è stato scritto in modo da renderne difficile o impossibile l’applicazione e da suggerirne l’abrogazione, per un malinteso senso di difesa dell’immagine delle forze di polizia.

Ma la norma sulla punizione della tortura rappresenta pur sempre un primo passo in avanti per la difesa della democrazia e della dignità; anche se è tardivo, incompleto ed è stato adottato soprattutto a seguito delle prese di posizione nazionali ed internazionali, nonché per rispettare reiterate condanne della giurisprudenza europea.

Molto dipenderà – per giudicare dell’effettività della norma e della sua capacità di rispondere alle numerose, pressanti e drammatiche domande che propone il tema della tortura – dalla saggezza e dalla cultura dei giudici nell’interpretare la legge; e soprattutto nell’applicarla secondo lo spirito, non soltanto secondo la lettera.

Nell’interpretazione è augurabile che la giurisprudenza segua prioritariamente le indicazioni concordi dell’ordinamento sovranazionale e comunitario; non scelga una via riduttiva e di esasperazione delle ambiguità che contiene la formulazione della norma.

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La tortura, la sua storia e memoria, evocano infine un altro tema distinto ma connesso: il rapporto ed il confronto tra la dimensione individuale della tortura e quella collettiva dello sterminio, del genocidio, della Shoah. Quali legami vi sono – se vi sono – fra queste due manifestazioni della natura e della crudeltà umana, che costituiscono entrambe, sotto profili diversi, un’aggressione alla dignità, alla identità e alla vita della persona (quando la tortura si conclude con la morte)? V’è solo una differenza di quantità (fra il singolo e il gruppo come vittime) e di modalità dello svolgimento di tali aggressioni; o vi è fra di loro una differenza ontologica prima che strutturale?

Per un primo orientamento (cfr. in particolare Donatella Di Cesare e Primo Levi) la tortura non può essere considerata un tratto essenziale della Shoah; non fa parte né dello sterminio, né del genocidio di un popolo o di un gruppo. La sovrapposizione fra le due realtà rischia di generare confusione fra esse. Nello sterminio di massa il singolo “non conta”; non c’è tempo per la tortura e per la sua complessità; il suo uso diventa addirittura “superfluo”. Fermo restando il nesso tra la tortura e le altre grandi imprese di distruzione ed il loro legame di continuità nella distinzione, “l’esperienza della tortura appare un fenomeno estraneo all’universo concentrazionario”.

Al contrario, per altri (così Jean Amery e Bruno Bettelheim), la tortura è l’essenza del Terzo Reich ed è fondamentale per la sua comprensione; comprende l’intero processo dell’internamento, dalle modalità di deportazione alla vita nel campo. È una tortura diversa sia da quella finalizzata all’interrogatorio, sia da quella praticata sull’oppositore politico. È al tempo stesso razionale e illimitata, sadica e industrializzata ed impersonale. È una novità a carattere terroristico, rispetto alle due forme tradizionali di essa, come sottolinea Hanna Arendt.

Insomma, la tortura è vista come il punto di avvio del processo di disumanizzazione che conduce al lager, come osserva Jean Amery confrontando la sua deportazione in Germania durante la Resistenza francese con le vicende successive della guerra di Algeria (la sale guerre): “luogo principe di una tortura infinita” in cui la violenza coloniale raccoglie l’eredità del razzismo; che si affaccia e si impone sulla democratica Francia così come credo potrebbe farlo in un qualsiasi altro paese e in qualsiasi altra situazione.

Tenere insieme tortura e campi di concentramento e sterminio (la prima forma moderna di tortura terroristica) al di là delle distinzioni esistenti fra le due realtà, vuol dire tener presente la lezione e l’ammonimento della storia e della memoria, la pervietà e la fragilità del confine fra tortura e democrazia, fra guerra e pace.

Sono una lezione ed un ammonimento preziosi di questi tempi. Sono la premessa per conservare e rendere effettive l’attualità di una Costituzione come la nostra; la definizione della dignità come sua pietra angolare; la garanzia del rapporto fra la persona e lo stato; la capacità della Costituzione di fronteggiare il terrorismo senza dover ricorrere a leggi essenziali, come avvenuto in prevalenza già in passato, per il terrorismo di matrice nazionale.

E tutto ciò non è poco – anche se non è sufficiente – nella lunga marcia verso il riconoscimento e l’effettività dei diritti inviolabili della persona.

BIBLIOGRAFIA

 Per una indicazione sui contributi di riflessione sul tema cui si richiama il testo, assai numerosi, si rinvia a taluni fra i più recenti, per ogni approfondimento:

  • A. COLELLA, Il nuovo delitto di tortura, in Il libro dell’anno del diritto 2018, Treccani, Roma, 2018.
  • S. SCAROINA, Il delitto di tortura, Cacucci Editore, Bari, 2018.
  • M. DI GIOVANNI, C. RITA GAZA, G. SILVESTRINI (a cura di), Le nuove qualificazioni della tortura nell’età dei diritti, Morlacchi Editore, Perugia, 2017, con particolare riferimento ai contributi di M. Lalatta Costerbosa, M. Montagna, C. Mazza, G. Silvestrini, D. Guzzi, A. Algostino.
  • P. GONNELLA, Storia, natura e contraddizioni del dibattito sulla tortura, in Politica del diritto, 3, 2017.
  • D. DI CESARE, Tortura, Bollati Boringhieri, Torino, 2016.
  • G. M. FLICK, Elogio della dignità, Roma, Libreria Editrice Vaticana, 2015.
  • ID., Dalla Leopolda alla Leopolina. Un passo indietro o un ritorno al futuro?, in Rivista AIC – Associazione Italiana Costituzionalisti – Saggi, 2/2015.
  • S. RODOTA’, La vita e le regole (tra diritto e non diritto), Feltrinelli. Milano, 2009.
  • A. CASSESE, L’esperienza del male, Il Mulino, Bologna, 2011.
  • ID., Il sogno dei diritti umani, Feltrinelli, Milano, 2008.
  • A. MANZONI, Storia della colonna infame, Milano, 1840.
  • C. BECCARIA, Dei delitti e delle pene, Livorno, 1764 (riedizione Milano, Mondadori, 2014).